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Fontis Augustei Aquaeductus
 

Fontis Augustei Aquaeductus

Forino, diversamente da tante altre località irpine, non ha testimonianze dirette che certifichino le sue origini. Sporadicamente vi è qualche ritrovamento, ma niente che incoraggi una attenta ricerca archeologica. Quando poi qualcosa di interessante viene alla luce, ci pensa il cemento (vedi necropoli di Petruro, 1957) o la Soprintendenza (vedi anfora nel capoluogo comunale, 1999), a stendere un velo di silenzio su passato. E visto che le favole non appartengono al nostro repertorio, parliamo dell’unica storia tangibile che emerge dall’oblio dei secoli, e che riguarda i primi insediamenti stabili nel nostro territorio. E’ risaputo dell’esistenza di una colonia romana nella vicina Abellinum (oggi Atripalda), la quale, per congetture degli studiosi (dapprima Scandone, poi anche il nostro Vespucci) doveva avere la sede di amministrazione della giustizia dove ora sorge la nostra frazione Petruro. Si conosce l’esistenza del nemus corilianum, un esteso bosco di alberi di nocciuole che copriva una vasta area, compresa tra gli attuali abitati di Montemiletto, Candida e Forino. Ma il fatto che rende certo un insediamento umano stabile nella nostra zona è la costruzione del grande acquedotto Augusteo, il quale forniva con le acque delle sorgenti di Serino le principali città circostanti Napoli.

La costruzione di questo acquedotto, dapprima attribuita erroneamente per molti secoli, fino al 1938, all’imperatore Claudio, è invece da attribuirsi all’imperatore Augusto, come si evince da una lapide ritrovata nei pressi delle sorgenti serinesi, risalente all’epoca del consistente restauro dell’acquedotto da parte dell’imperatore Costantino, tra il 323 e il 324 D.C.. Infatti, durante l’età augustea venne avviato un ampio programma di recupero dei vecchi acquedotti esistenti e la costruzione, nelle province italiane più importanti, di nuovi impianti. Oltretutto la Campania Felix, fiore all’occhiello dell’Impero, era bisognosa di acquedotti che rifornissero i grandi scali marittimi di Puteoli (commerciale) e Misenum (militare). Ed è quindi intuibile, che nei primi anni dell’era posteriore alla nascita di Cristo, l’inizio dei lavori di realizzazione di questa grande opera coincise con lo stabilirsi nella nostra valle di alcuni insediamenti umani. Perché degli insediamenti proprio nella zona di Forino? L’indicazione l’abbiamo da un ingegnere del XIX secolo, il napoletano Felice Abate. Questi, per grande parte della sua esistenza, dovette dedicare molto tempo allo studio dell’acquedotto allora ancora conosciuto come Claudio. In quei tempi la città di Napoli era molto bisognosa, come lo è tutt’ora, di acqua, e le sorgenti più ricche e più vicine ad essa sono, da sempre, quelle irpine. Si pensava, quindi, di realizzare un nuovo grande acquedotto che approvvigionasse la capitale del Regno delle Due Sicilie. Felice Abate invece era dell’idea che sarebbe stato più facile restaurare le antiche opere romane per ottenere il risultato ambito, e quindi tra il 1840 ed il 1860 seguì e studiò l’intero percorso di questo acquedotto. Infatti il disegno qui mostrato è relativo ai rilievi compiuti tra il 1840 e il 1841, e sfociati nella pubblicazione dei suoi studi, di cui copia è conservata presso la Biblioteca Comunale di Avellino. Ecco qui un resoconto dei suoi studi relativamente al territorio di Forino: “… a questo modo, distendedosi oltre, traversa per brevi tratti due banchi di tufo vulcanico, e perviene, dopo il corso di circa dieci miglia dalla sua origine, alla valle Contrada, in tenimento di Forino. Di questo tratto dell’acquidotto non restano, come dissi, che ruderi e malconci spezzoni. La sua luce, quasi da tutto per uniforme, è larga palmi 3, alta palmi 7,50: la struttura n’è varia, secondo i materiali che offrono i luoghi per i quali esso percorre; ove di pietra calcare, ove di tufo vulcanico, alternato con de’ filari di mattoni: le sue sponde son vestite d’intonaco, ed il letto n’è formato per un saldissimo battuto di tegole peste: in alcuni siti, ove abbonda l’argilla, il cielo di esso è coverto, in vece di volta di fabbrica, da grandi lastre di questa terra, cotta, poste a cavalli… Fin qui l’acquidotto si è sviluppato a mezza costa, ed a fior di terra, tra le montagne. Ora li si oppone di fronte il monte di Forino, quasi volesse arrestargli il passo; ma l’aqcuidoccio il buca netto, per tre miglia di lunghezza, nel sasso calcare, e così esce d’impaccio. Questo mirabilissimo traforo, la cui luce presenta le stesse dimensioni che i tratti in fabbrica, dirigesi da levante a ponente per sotto il casale Contrada (parte del Comune di Forino) ove nel sito cui oggi esiste una taverna, sulla consolare de Due Principati, avvi un profondissimo spiracolo, per entro il quale non son molti anni che discendevasi fino al fondo dell’acquidotto; ed altri simili, di enorme profondità, ve ne hanno in prosieguo. Il piano verticale che passa per la sua direttrice incontra, poco innanzi, la gola tra’ monti Faiesi, e Bufoni; e dipoi la pianura di Forino, su la quale il Comune rimane a destra con i suoi casali di Petruro, Pozzo, Celsi. Traversato questo piano, a non molta profondità, e l’altra gola che separa il monte della Laura da quello di Montuoso, sbuca fuori nel vallone che si denomina de’ pozzilli, di dove scende giù precipitosamente per le falde orientale e settentrionale del secondo monte, nel mezzo di quelle traversando, quasi in piano, il vallone Cannavaro, che proviene da Bracigliano, e giunge al piano di Montoro Inferiore, poco innanzi le rampe della Laura. Questo secondo tratto dell’acquidotto è mirabilissimo sorprendente e di un valore inestimabile, non meno per l’arduo traforo del monte, e per la natura saldissima del sasso in cui lo è praticato, che per la enorme caduta di 6 o 700 palmi, come a colpo d’occhio la stimo...”. Altri sono i suoi scritti, succedutisi nel tempo, in quanto l’Abate fece delle sue convinzioni una tenace crociata. In altre pagine infatti descrive lo scavo della galleria, “… senza esempio per la immensa fatica per forarla, per i molti e profondi spiragli che lungo il corso v’hanno e ciò in tempo in cui la polvere tonante era ignota…”. Non meno interessanti le descrizioni dei spiracoli (sfiatatoi) che si presume appartengano all’acquedotto. L’unico di cui se ne aveva assoluta certezza era quello posto nella precedentemente accennata taverna nei pressi di Contrada (allora frazione di Forino). Gli altri, si suppone siano le bocche poste ai piedi della montagna di Bufoni e il fosso delle Pescaie a Celzi. Inoltre, ci scriveva Vespucci, che il passaggio della galleria dell’acquedotto doveva essere l’origine di vari sprofondamenti nella piana di Celzi, ma di quali di questi egli parlasse non ci è dato di saperlo. Dovevano invece suscitare ilarità le paure dei contadini che “faticavano” nei pressi della Laura. Infatti, lasciando la descrizione sempre all’Abate, “… l’altro spiraglio, come sembra, vedesi nella pendice opposta di quella gola di monti, a sinistra della strada dei Due Principati, in una selva di proprietà del Principe di Forino. E’ desso un pozzo profondo 14 metri, cavato nella roccia calcarea, il quale bisognerebbe far disterrare interamente per conoscerne la natura e lo scopo. Così cesserebbero pure le ridicole fole che si narrano dai contadini del luogo su quella buca, che per essi è oggetto di terrore”. Da queste poche righe si intuisce la grandiosità dell’opera, ed il lungo tempo impiegato per realizzarla. Ed è quindi certo che tutti i funzionari e gli schiavi addetti alla realizzazione di essa abbiano dovuto dimorare per alcuni anni nella nostra valle. Questo conferma una costante frequentazione umana del territorio con un suo conseguente insediamento stabile, e se poi questi insediamenti siano stati nel piano o nella zona dove ora sorge l’abitato di Castello, questo è un altro rebus, anche se pare ovvia la seconda ipotesi se non altro per la posizione strategicamente “nascosta”. Auguriamoci che in un futuro non troppo lontano qualcuno confermi queste ipotesi, o magari le contesti e ci fornisca visioni e scenari differenti, ma sempre confortati da prove tangibili. Come scriveva Vespucci, “…la storia si scrive solamente notizie, fatti, e avvenimenti rattrovati in pubblicazioni di vario genere oppure consacrati in atti amministrativi o in documenti che hanno il crisma dell’ufficialità. Se avessi voluto scrivere le notizie, i fatti e gli avvenimenti, tramandati a memoria d’uomo, oppure riferitemi, certamente non avrei scritto un libro serio”.