La costruzione di questo acquedotto, dapprima
attribuita erroneamente per molti secoli, fino al 1938, all’imperatore
Claudio, è invece da attribuirsi all’imperatore Augusto, come si
evince da una lapide ritrovata nei pressi delle sorgenti serinesi,
risalente all’epoca del consistente restauro dell’acquedotto da
parte dell’imperatore Costantino, tra il 323 e il 324 D.C.. Infatti,
durante l’età augustea venne avviato un ampio programma di recupero
dei vecchi acquedotti esistenti e la costruzione, nelle province
italiane più importanti, di nuovi impianti. Oltretutto la Campania
Felix, fiore all’occhiello dell’Impero, era bisognosa di
acquedotti che rifornissero i grandi scali marittimi di Puteoli
(commerciale) e Misenum (militare). Ed è quindi intuibile, che
nei primi anni dell’era posteriore alla nascita di Cristo, l’inizio
dei lavori di realizzazione di questa grande opera coincise con lo
stabilirsi nella nostra valle di alcuni insediamenti umani. Perché
degli insediamenti proprio nella zona di Forino? L’indicazione
l’abbiamo da un ingegnere del XIX secolo, il napoletano Felice Abate.
Questi, per grande parte della sua esistenza, dovette dedicare molto
tempo allo studio dell’acquedotto allora ancora conosciuto come
Claudio. In quei tempi la città di Napoli era molto bisognosa, come lo
è tutt’ora, di acqua, e le sorgenti più ricche e più vicine ad essa
sono, da sempre, quelle irpine. Si pensava, quindi, di realizzare un
nuovo grande acquedotto che approvvigionasse la capitale del Regno delle
Due Sicilie. Felice Abate invece era dell’idea che sarebbe stato più
facile restaurare le antiche opere romane per ottenere il risultato
ambito, e quindi tra il 1840 ed il 1860 seguì e studiò l’intero
percorso di questo acquedotto. Infatti il disegno qui mostrato è
relativo ai rilievi compiuti tra il 1840 e il 1841, e sfociati nella
pubblicazione dei suoi studi, di cui copia è conservata presso la
Biblioteca Comunale di Avellino. Ecco qui un resoconto dei suoi studi
relativamente al territorio di Forino: “… a questo modo,
distendedosi oltre, traversa per brevi tratti due banchi di tufo
vulcanico, e perviene, dopo il corso di circa dieci miglia dalla sua
origine, alla valle Contrada, in tenimento di Forino. Di questo tratto
dell’acquidotto non restano, come dissi, che ruderi e malconci
spezzoni. La sua luce, quasi da tutto per uniforme, è larga palmi 3,
alta palmi 7,50: la struttura n’è varia, secondo i materiali che
offrono i luoghi per i quali esso percorre; ove di pietra calcare, ove
di tufo vulcanico, alternato con de’ filari di mattoni: le sue sponde
son vestite d’intonaco, ed il letto n’è formato per un saldissimo
battuto di tegole peste: in alcuni siti, ove abbonda l’argilla, il
cielo di esso è coverto, in vece di volta di fabbrica, da grandi lastre
di questa terra, cotta, poste a cavalli… Fin qui l’acquidotto si è
sviluppato a mezza costa, ed a fior di terra, tra le montagne. Ora li si
oppone di fronte il monte di Forino, quasi volesse arrestargli il passo;
ma l’aqcuidoccio il buca netto, per tre miglia di lunghezza, nel sasso
calcare, e così esce d’impaccio. Questo mirabilissimo traforo, la cui
luce presenta le stesse dimensioni che i tratti in fabbrica, dirigesi da
levante a ponente per sotto il casale Contrada (parte del Comune di
Forino) ove nel sito cui oggi esiste una taverna, sulla consolare de Due
Principati, avvi un profondissimo spiracolo, per entro il quale non son
molti anni che discendevasi fino al fondo dell’acquidotto; ed altri
simili, di enorme profondità, ve ne hanno in prosieguo. Il piano
verticale che passa per la sua direttrice incontra, poco innanzi, la
gola tra’ monti Faiesi, e Bufoni; e dipoi la pianura di Forino, su la
quale il Comune rimane a destra con i suoi casali di Petruro, Pozzo,
Celsi. Traversato questo piano, a non molta profondità, e l’altra
gola che separa il monte della Laura da quello di Montuoso, sbuca fuori
nel vallone che si denomina de’ pozzilli, di dove scende giù
precipitosamente per le falde orientale e settentrionale del secondo
monte, nel mezzo di quelle traversando, quasi in piano, il vallone
Cannavaro, che proviene da Bracigliano, e giunge al piano di Montoro
Inferiore, poco innanzi le rampe della Laura. Questo secondo tratto
dell’acquidotto è mirabilissimo sorprendente e di un valore
inestimabile, non meno per l’arduo traforo del monte, e per la natura
saldissima del sasso in cui lo è praticato, che per la enorme caduta di
6 o 700 palmi, come a colpo d’occhio la stimo...”. Altri sono i
suoi scritti, succedutisi nel tempo, in quanto l’Abate fece delle sue
convinzioni una tenace crociata. In altre pagine infatti descrive lo
scavo della galleria, “… senza esempio per la immensa fatica per
forarla, per i molti e profondi spiragli che lungo il corso v’hanno e
ciò in tempo in cui la polvere tonante era ignota…”. Non meno
interessanti le descrizioni dei spiracoli (sfiatatoi) che si presume
appartengano all’acquedotto. L’unico di cui se ne aveva assoluta
certezza era quello posto nella precedentemente accennata taverna nei
pressi di Contrada (allora frazione di Forino). Gli altri, si suppone
siano le bocche poste ai piedi della montagna di Bufoni e il fosso delle
Pescaie a Celzi. Inoltre, ci scriveva Vespucci, che il passaggio della
galleria dell’acquedotto doveva essere l’origine di vari
sprofondamenti nella piana di Celzi, ma di quali di questi egli parlasse
non ci è dato di saperlo. Dovevano invece suscitare ilarità le paure
dei contadini che “faticavano” nei pressi della Laura.
Infatti, lasciando la descrizione sempre all’Abate, “…
l’altro spiraglio, come sembra, vedesi nella pendice opposta di quella
gola di monti, a sinistra della strada dei Due Principati, in una selva
di proprietà del Principe di Forino. E’ desso un pozzo profondo 14
metri, cavato nella roccia calcarea, il quale bisognerebbe far
disterrare interamente per conoscerne la natura e lo scopo. Così
cesserebbero pure le ridicole fole che si narrano dai contadini del
luogo su quella buca, che per essi è oggetto di terrore”. Da
queste poche righe si intuisce la grandiosità dell’opera, ed il lungo
tempo impiegato per realizzarla. Ed è quindi certo che tutti i
funzionari e gli schiavi addetti alla realizzazione di essa abbiano
dovuto dimorare per alcuni anni nella nostra valle. Questo conferma una
costante frequentazione umana del territorio con un suo conseguente
insediamento stabile, e se poi questi insediamenti siano stati nel piano
o nella zona dove ora sorge l’abitato di Castello, questo è un altro
rebus, anche se pare ovvia la seconda ipotesi se non altro per la
posizione strategicamente “nascosta”. Auguriamoci che in un futuro
non troppo lontano qualcuno confermi queste ipotesi, o magari le
contesti e ci fornisca visioni e scenari differenti, ma sempre
confortati da prove tangibili. Come scriveva Vespucci, “…la
storia si scrive solamente notizie, fatti, e avvenimenti rattrovati in
pubblicazioni di vario genere oppure consacrati in atti amministrativi o
in documenti che hanno il crisma dell’ufficialità. Se avessi voluto
scrivere le notizie, i fatti e gli avvenimenti, tramandati a memoria
d’uomo, oppure riferitemi, certamente non avrei scritto un libro
serio”.
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