Solitamente, quando si parla di
produzione della seta a Forino, si rimanda la memoria al toponimo "Celzi".
Infatti il nome della frazione, posta sull'asse viario Salerno-Benevento
conosciuto come la statale "Dei Due Principati", è il risultato di una
trasformazione linguistica che ha attraversato il tempo. In vari documenti
il nome è riportato come "Celsi" o "Gelsi", e da memoria storica è certa
la sua derivazione dal nome appunto degli alberi di gelso, e da una
atavica e ora inesistente produzione di bachi da seta. Ma esponiamo con un
certo ordine i fatti. La seta, come si sa, è un
prodotto di importazione orientale e la datazione della sua lavorazione è
oggetto di controversia da parte degli studiosi. C'è chi la sostiene
risalente all’epoca
dell’imperatore cinese Sehn Nung (2800 A.C.), chi invece a quella
dell'imperatore cinese Hoang-ti, vissuto intorno al 2600
A.C..
Nel Mezzogiorno la
produzione della seta ebbe il suo maggiore sviluppo sotto i normanni e
durò incontrastatamente fino agli albori della seconda metà del 1500, dopo
i quali iniziò la sua fase discendente. L’avvento della dinastia
normanna (1065-1191), specie sotto Ruggero II (1130-1154), diede un forte
impulso alla bachicoltura (o trattura della seta) e con Federico II di
Svevia (1220-1250) divenne una vera e propria attività economica, con la
quale l’imperatore intese dare impulso all’economia.
Il più antico documento che testimonia la gelsi-bachicultura in
Italia è dell'Aprile 1036 e si tratta di un Memoratorium rogationis,
rogato in Avellino, con il quale tali Giovanni e Pietro prendono in fitto per 15
anni dall'abate di San Modesto di Benevento l'intera grangia di Summonte,
impegnandosi anche a coltivare e raccogliere bachi da seta: et quando fuerit
tempus de serico, debeamus nos facere colligere ipse fronde de ipsi celsi pro
sericum faciendum, et quantum sericum Dominus dederit inde debeamus nos dividere
totum ipsum sericum in due partis, nos tollamus inde medietatem et ad partem
eiusdem monasterii demus deinde reliquam medietatem (pergamena n. 37,
Archivio di Montevergine). Nel 1585, la tecnologia della seta è complessa. I bachi
"in
caso di necessità, non essendo spuntate le foglie di Mori (gelsi) si cibano
delle cime d'ortica, di olmo o di latuca. E dopo il dormire della
terza, destati che sono, mangiano altri otto giorni; e poi dormono un'altra
volta. Et questo si chiama dormire della grossa: e quelli che faranno la seta
gialla, mostrano il ventre loro come d'oro, e quelli che sono per farla bianca,
lo mostrano di colore d'argento, oue allhora quelli, che li governano,
conoscendoli, mettendoli sopra le frasche secche di ginepro, scope, felci,
sarmenti, rami di guercie, ò di castagni. La seta si caua dai boccioli posti in
una caldara sopra qualche fornello, la quale si rauolge sopra alcune rospe, et
poi uà in mano al Bauellaro, che co i pettini la pettina, e coi carti la
carteggia, et poi alle maestre, ch'adoprano i corli, e le crociolle, quindi
all'Aguindilatore che la mette sui guindali, e al filatoio, che la fila, usando
il molino, i rocchelli, i fusi, le coronelle, e anella loro; e filata ch'è torna
pur nella mani delle donne, che l'adopian ancora sopra rocchelli, e torno anco
al filatoio à torcersi, e di poi torta va al Tintore." Non è stata rinvenuta documentazione per i secoli successivi,
sino a quando, dal 1773 che Ferdinando IV si interessò al
complesso di San Leucio, facendolo chiudere in una recinzione con le colline retrostanti e
collocandovi, per l'opportuna manutenzione, un piccolo numero di individui con
le rispettive famiglie. S.Leucio rappresentò la trasformazione e l'adattamento ad una
pluralità di destinazioni, sulla fine del XVIII sec., di un antico edificio
denominato "Casino del Belvedere", costruito in forme probabilmente "palladiane"
nel XVI sec. dai Feudatari di Caserta e passato nel 1750 alla Corona con tutto
lo "Stato di Caserta". Aumentando velocemente il numero dei residenti, sia per la
prolificità delle coppie, sia per l'aggregazione di sempre nuove famiglie, parve
opportuno al Re provvedere al sostentamento di queste dapprima (1776)
coll'introduzione di una manifattura di veli di seta, in seguito (1789)
concependo l'istituzione di quella "Colonia di S.Leucio", che diventò il centro
della produzione serica del Regno di Napoli. Nell'Ottocento, invece, la coltivazione del baco da seta è largamente
documentata negli atti della Reale Società Economica del Principato Ultra. Tale
Reale Società nel 1829 chiese al Presidente del Reale Istituto di
Incoraggiamento alle Scienze Naturali le mazze del gelso Morettiana per
propagarne l'innesto in provincia di Avellino, sostenendo che una maggiore
quantità di piante sarebbe stata opportuna in questa provincia dove si propagava
giornalmente la coltura dei bachi che la seta producono. Un documento del 1855 testimonia di due filande in esercizio:
quella del signor Izzo in Cautano (BN) e quella del signor Guarini a Forino
(AV); entrambi utilizzano il sistema della filatura alla piemontese ad asse
corta che in quel periodo sostituisce quella ad asse lunga. Altre piccole
filande fioriscono nel comune di Sperone (AV) ma mancherà sempre in Irpinia una
industria della lavorazione della seta, deficienza sopperita dalla Real Fabbrica
di S. Leucio, dalla fabbrica di seterie di Leonardo Matera in Barra, che produce
il famoso "Gros di Napoli", e dalla fabbrica di Giovanni Fabbri, che produce
stoffe di seta all'uso di Lione. Agli inizi della seconda metà dell'Ottocento viene denunciata
la malattia che colpisce i bachi da seta e che determinerà la fine di questa
attività. Vani furono i tentativi di risoluzione del problema con l'immissione
sul mercato irpino di sementi di bachi inviati dall'Asia centrale dai conti
Freschi e Castellani, i quali si recarono successivamente anche in Africa
centrale per studiarne il Metodo di educazione. Queste sono delle brevi
note storiche. Per quanto riguarda invece la produzione, il baco da seta, verme della
lunghezza di circa 5 cm, per produrre la sua bava filamentosa (filo di
seta) si doveva cibare con le foglie del gelso. Il metodo di produzione della
seta grezza si è tramandato nelle nostre contrade fino alla fine del XIX
secolo, solo per la presenza di una filanda. Il baco, come si è detto, era
un piccolo verme di colore biancastro. Nel suo periodo di
fecondità, espelleva le sue uova che venivano, poi, deposte al caldo di un
panno di lana che produceva una temperatura superiore ai 15 gradi. Un
altro sistema era quello di deporre le minuscole uova (in un'oncia, 27
grammi, ve ne erano circa 60mila) sotto il materasso del letto, oppure
molte donne le portavano al seno, contenute in un panno e ne facilitavano
la schiusa con il calore corporeo. La schiusa delle uova avveniva dopo 14
giorni. Le larve, di colore grigio nerastro, venivano poste su graticci di
canne, i cui piani erano coperti di carta, ed alimentati
con foglie tenere di gelso bianco finemente tagliuzzate. Nei primi giorni,
il lavoro si limitava alla raccolta ed alla frantumazione di una congrua
quantità di foglie di gelso ben asciutte, fresche e pulite e, almeno ogni
48 ore, dovevano inoltre essere sostituiti i fogli di carta che
raccoglievano gli escrementi. Più i bachi crescevano, più aumentava il
loro appetito. Nel corso della loro crescita subivano 4 mutazioni della
pelle, mutandone anche il colore fino ad arrivare al bianco o giallo: la
prima muta avveniva al 5° giorno dalla schiusa, la seconda al 10° giorno,
la terza al 16°, la quarta muta al 23° e, al 33° giorno di vita, i bachi
incominciavano a secernere la bava emessa da un
organo detto "filera", posto sotto la bocca, iniziando così la costruzione
bozzolo vero e proprio di colore bianco. Dopo 15 giorni,
il baco, cresciuto della lunghezza di un dito, emetteva una secrezione
rossiccia, scioglieva poi la sostanza gommosa agglutinante che univa i
fili, li divaricava senza romperli e usciva all'aperto con l'aspetto di
una tozza farfalla bianca incapace di volare e di nutrirsi perché dotata
di un apparato boccale rudimentale privo di organo succhiatore. Nei
restanti 5-6 giorni, seguivano l'accoppiamento, la deposizione di circa
500 uova, quindi la morte che concludeva il ciclo dell'animale. Per
l'utilizzazione della seta, però, era necessario intervenire prima
dell'uscita della farfalla dal bozzolo, poichè la secrezione rossastra
emessa dal baco per aprirsi il varco avrebbe irrimediabilmente macchiato
la seta facendole perdere alcune sue peculiari caratteristiche come il
candore e la lucentezza e rendendo, inoltre, impossibile il lavoro di
filatura; perciò, prima dell'emissione della sostanza rossastra, la
crisalide veniva sfilata e i bozzoli venivano
ammassati in un recipiente con acqua bollente, in modo
che le varie “matasse” si amalgamassero in un’unica poltiglia. Poi, con
un’asta di legno, alla cui estremità vi erano due lunghi chiodi che
servivano a filare la poltiglia, si estraevano tre fili di seta che si
“ammatassavano” da un chiodo all’altro, fino a comporre la matassa vera e
propria della lunghezza di circa un metro. Le matasse di seta grezza
venivano immesse sul mercato per poi essere ancora raffinate
e vendute come seta pura nei mercati di tutta Europa. Il gelso italiano era quello
nero (il morus nigra) che non aveva le stesse qualità di quello
bianco (il morus alba), presente in Sicilia e Calabria e, quindi,
la seta prodotta dal baco di gelso bianco - che era la più ricercata
- per alcuni secoli fu una prerogativa di queste due sole regioni
che determinarono un vero e proprio monopolio. Ma con l’affinamento della
tecnica vivaistica, specialmente quella toscana, si riuscì a fare
attecchire il gelso bianco anche in altre regioni, come la Toscana
e la zona del lago di Garda. |
Gennaio
1998 "Le vie della seta
in Irpinia" presso il Palazzo Caracciolo |
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Scheda
sull'avvenimento di Forino a cura del dott. Lucia
Portoghesi "Quanto mai interessante è la raccolta di
Forino, nata dall'opera paziente di un appassionato della
storia del suo paese, che con buona volontà e amore, ha
raccolto quanto ancora permaneva dalle distruzioni del
terremoto, curandone anche, per quanto gli è stato possibile,
la conservazione. Ne ha fatto poi argomento di studio suo
personale, di ricerca di documentazione inerente, tanto da
costituire l'elemento ideale per una futura esposizione
museale permanente della storia di Forino. Curiosamente sono
del tutto assenti donazioni dei Caracciolo, pur feudatari del
luogo ed onnipresenti nella storia locale; le "case" loro e
dei loro dipendenti, formavano ancora fino a cent'anni fa un
quartiere chiuso da porte, un paese nel paese, che l'allegra
malizia paesana definisce abitata oltre che dai legittimi
discendenti del nobile casato, dai frutti dell'esuberanza dei
giovani feudatari, divenuta proverbiale. A parte le allegre
storie locali, le sacrestie delle chiese di Forino dovettero
costituire una ben ampia raccolta con notevoli esemplari, come
il cinquecentesco elegantissimo parato in broccatello verde e
beige, con un puntuale riscontro in altro coevo a San
Francesco a Folloni, simile per stile e tecnica o l'altro
parato, sempre in verde, forse frutto della donazione di un
abito da sposa, ma certamente di una veste, in raso
"stratagliato" secondo una moda assai diffusa anche nel Regno
(delle Due Sicilie n.d.r). |
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Una testimonianza
calzante, da noi personalmente constatata, è presente nelle Arche
degli Aragonesi in San Domenico Maggiore a Napoli (Don Pietro
d'Aragona, Don Giovanni d'Aragona, Don Luigi Carafa, ecc.). Tale
tecnica consisteva nell'ottenere tagli a disegno con una taglierina,
in senso trasversale per limitare il danno di stramature e in
punzonature, probabilmente facilitate da una mascherina metallica, o
in cuoio, che riportasse il modulo che si voleva ottenere. Poco
rappresentato il Seicento: una sola pianeta del periodo 1580-1620,
con lo stesso modulo di un parato di Montemarano, in due colori a
leggero contrasto che creano effetto di rilievo, mentre assai ricco
ci si presenta il Settecento, due tonacelle su fondo di lama
d'argento, databili intorno al 1730, forse di quella manifattura
napoletana dei Carola che produceva ricchi tessuti con oro e
argento, ma meglio di qualsiasi rappresentazione per il pubblico
sarà il godere di questi tessuti che si offrono alla vostra
attenzione." | |
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